3.1.1 - L’impresa di Nemi

Segnatura: Sub-fondo Navi di Nemi, b. 1, fasc. 3: Conferenza “L’impresa di Nemi”, 1940, sf. B.1, c.1

Tipologia: unità documentaria
Titolo: L’impresa di Nemi
Estremi cronologici: 1940 [Anno XVIII]

Contenuto: “L’impresa di Nemi”, conferenza tenuta al Regio Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte in data 22 aprile 1940, testo non firmato, verosimilmente attribuibile a Guido Ucelli.

Regesto: Il testo si propone di esaltare tutti gli studiosi e politici che hanno dato il loro contributo al fine di compiere questa impresa colossale che fu il recupero delle Navi di Nemi. Segue un sunto delle principali vicende legate all’impresa e gli studi compiuti sui vari materiali recuperati nel corso degli anni.

Trascrizione:
“Roma, 22 aprile 1940 XVIII
Conferenza tenuta al R. Istituto d’Archeologia e Storia dell’Arte

L’IMPRESA DI NEMI
Altezza eminentissima, eccellenze, signore, signori
Nel giorno del Natale di Roma, con la solenne inaugurazione del grandioso Museo sorto sulla sponda del lago di Nemi, si è ieri compiuta l’impresa che il Duce aveva annunciato il 5 aprile 1927 - V alla R. Società Romana di Storia Patria.
Quanti hanno seguito le fortunose vicende della realizzazione, quanti hanno sofferto per le incomprensioni forse inevitabili, per le difficoltà e gli ostacoli che ripetutamente ne minacciarono il compimento, quanti infine hanno esultato per l’esito vittorioso, devono oggi rievocare con riconoscenza e con affetto l’austera figura di Corrado Ricci, che già nel 1907, con lucida visione, aveva iniziato studi per risolvere il secolare problema, e che, sino all’estremo, diede all’impresa l’appoggio della Sua ferma Fede e della Sua alta autorità.
Nella sede di questo Istituto da Lui fondato e che fu la fucina della grande impresa, ricordiamo: quando ricuperata la prima nave si discute sulla continuazione delle ricerche, e più vivi sono i contrasti, nell’ottobre 1930 il Sen. Ricci dichiara che “se dovesse scegliere non esiterebbe a rinunciare ai Fori Traianei pur di salvare anche la seconda nave di Nemi “.
Prevalgono le ragioni della scienza: il Consiglio dei Ministri delibera di accettare le nuove offerte del Comitato Industriale per la piena attuazione del programma, e Corrado Ricci, nel ringraziare il Ministro Sirianni per la valida opera esplicata a questo scopo, il 7 novembre 1930 scrive: “ io non potevo neppure pensare che al punto in cui siamo si abbandonasse una impresa tanto grande e tanto utile per la conoscenza dell’antica tecnica navale, per l’archeologia, per l’arte, per la storia. Io medesimo - continua il Sen. Ricci - il 28 u.s. ebbi a dire a S. E. il Capo del Governo essere il lavoro di ricupero e di esplorazione delle navi di Nemi il maggiore che si fosse mai compiuto in fatto di archeologia e quelle navi i più meravigliosi cimeli rimastici dell’antichità “.
Ma all’alto patrono non fu concesso di godere del compimento dell’opera.
E questo premio mancò anche ad altri che pure hanno dato preziose energie per la realizzazione:
- Ugo Antonielli, archeologo dal vivace spirito giovanile, che sentiva tutta la profonda poesia della singolare ricerca da lui condotta con cuore di combattente e con animo di fascista
- Carlo Montani, che aveva celebrato con la sua facile tavolozza gli incanti del lago e della selva sacri a Diana e che aveva ridestato con la sua penna arguta l’interesse per le navi leggendarie
- Giovanni Aiello, Capo tecnico della R. Marina che ai lavori di recupero e ai successivi studi diede la sua perizia di mastro d’ascia, e la sua brama di indagine:
Nomi tutti per sempre legati all’impresa.
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Ad illustrare ora il più brevemente possibile la ricerca archeologica senza precedenti, non si vuole certo riferire in particolare sullo svolgimento dei lavori, come si ritenne di dover fare ripetutamente in passato, quando era necessario guadagnare amici alla causa, e suscitare consensi per la difesa e la continuazione dell’opera; questa analisi sarebbe oggi superflua: basterà un sintetico e brevissimo rendiconto.
Ma soprattutto, a chi ha dato dodici anni di lavoro appassionato e tenace per la realizzazione, sarà caro affermare l’alta idealità che ha illuminato questa che il Duce ha definito “opera di poesia”.
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La già cospicua letteratura nemorense si è arricchita in questo ultimo decennio di innumerevoli articoli e di studi pubblicati in Italia e all’estero da giornali e riviste, che però - salvo rare per quanto pregevoli eccezioni - si sono in massima limitati a riesumare antiche cronache e ad illustrare gli aspetti più appariscenti e le prime frammentarie rivelazioni delle nuove ricerche.
Le vecchie pagine del Biondo da Forlì con la descrizione del tentativo di G.B. Alberti nel 1446; le originali osservazioni che Francesco De Marchi poté effettuare nel 1535, valendosi di una specie di primitivo scafandro; la prova di Annesio Fusconi nel 1827, ed infine i recuperi del Borghi nel 1895, si devono pertanto ritenere ormai già a tutti ben noti.
Non è invece superfluo riaffermare il valore dello studio prezioso di Vittorio Malfatti che, su incarico del Ministero della Marina, nel 1895-96, effettua una metodica ed esatta esplorazione degli scafi, indicando, prima di ogni altro, il migliore e più sicuro mezzo per il recupero: l’abbassamento di livello del lago.
Il progetto, come è noto, rimane però lettera morta per trent’anni.
Solo infatti nel 1926 viene decisamente ripreso, e l’anno seguente la Commissione nominata dal Ministro Fedele, e presieduta da Corrado Ricci, concreta una proposta basata appunto sullo svaso del lago da effettuarsi per gravità, a mezzo di un nuovo cunicolo col quale scaricare le acque nel lago di Albano.
Ma, prima di passare alla fase esecutiva, il Duce - auspice il Ministro Belluzzo - accoglie favorevolmente un nuovo progetto, secondo il quale il secolare problema nemorense viene poi invece definitivamente risolto - senza oneri per lo Stato - col sollevamento meccanico delle acque che vengono scaricate, attraverso l’antico sistema emissario, per valle Ariccia e il Fosso dell’Incastro, presso Ardea al mare.
Lavori imprevisti di restauro e di parziale rifacimento di questo manufatto - di cui non è facile precisare l’epoca ricostruzione, forse anteriore alla fondazione di Roma - rivelano, oltre alle caratteristiche della galleria principale, mirabilmente rispondenti alle concezioni della tecnica ad oggi, la documentazione del tutto in attesa di una vera bonifica integrale.
Il lago, abbassato di livello per il prosciugamento della zona antistante al tempio di Diana, poteva infatti funzionare a mezzo di uno speciale sistema di regolazione, quale bacino di accumulazione invernale per la irrigazione della fertile Valle Ariccia, che era stata pure preventivamente redenta dalle acque stagnanti.
Non è però qui il caso di illustrare questi particolari, come non è il caso di riferire sulla scoperta delle ingegnose palizzate a sostegno delle rive che presentano pure notevoli analogie con le palancole, le più moderni costruzioni del genere.

Vicende dell’impresa
Tratteggiamo invece brevemente le principali vicende della impresa. Il 28 ottobre 1928 - VI il Duce inizia il funzionamento del primo impianto idrovoro che viene poi sostituito con altro a quota inferiore, e infine - causa il cedimento delle rive per il progressivo abbassamento delle acque - da installazioni galleggianti.
Il 28 marzo 1929 affiorano le prime strutture della nave e in un memorabile sopralluogo, presente anche S.A.R. il principe ereditario di Svezia, Corrado Ricci riafferma il completo programma della realizzazione.
Il 3 settembre, abbassato il lago di circa 11 metri, il bordo della prima nave è completamente scoperto.
Si continua lo svaso per prosciugare la zona di scavo, ma dopo cinque mesi, quando già affiorano anche le prime strutture della seconda nave e le maggiori difficoltà sembrano oramai superate, una violenta tempesta fa naufragare il pontone con le elettropompe.
Senza pensare ad una vendetta del Nume nemorense, l’incidente può essere ricordato in relazione alle ipotesi che ad analoga causa possa essere attribuito l’affondamento delle navi imperiali.
Due mesi di lavoro per recuperare questa volta il macchinario; viene poi ripreso l’abbassamento del lago sino a circa 15 metri, raggiunti il 5 ottobre 1930, e si procede così alle operazioni di alaggio della prima nave.
Frattanto già lo scafo della seconda si profila per un lungo tratto, rivelando particolari di speciale interesse; ma come si è accennato, solo ai primi di novembre è consentito di riprendere il lavoro.
Si pone poi in opera il nuovo macchinario appositamente costruito per la maggiore prevalenza, ma quando lo scafo è già completamente in secco, e non rimane che da provvedere all’ulteriore svaso necessario per le operazioni di alaggio, il 22 agosto 1931 un assestamento, più violento dei precedenti, sconvolge l’antico fondo lacustre emerso, e provoca la sospensione dei lavori.
La lunga odissea nemorense non è ancora alla fine: risorgono le antiche polemiche, e trascorrono mesi e mesi in discussioni, finché viene dato l’ordine di smontare il macchinario, e di abbandonare le ricerche.
È questo indubbiamente il momento più drammatico.
La Commissione, presieduta da Corrado Ricci, cerca ansiosamente il mezzo di impedire la rovina, e si prospetta persino la possibilità di far galleggiare lo scafo; progetto però che non è praticamente attuabile.
Il lago frattanto aumenta di livello giorno per giorno sino a riconquistare la preda; ma la nave immensa, circondata dalle acque, sembra invece galleggiare e rianimarsi sul mobile giuoco delle onde.
Si scende al lago per constatare i danni e la prodigiosa visione si imprime per sempre nel cuore commosso.
La romana maestà della nave, dalle linee possenti e armoniose, domina il lucido specchio di Diana che appare - come forse era un tempo - il centro del sacrario.
Sul tremulo bagliore dei flutti la nave risale il corso dei secoli e, nella divina solitudine che il Nume ha gelosamente conservato, si è dinnanzi, non ad una fredda e immobile testimonianza di un passato scomparso, ma ad una magica sopravvivenza, ad una realtà concreta e tangibile.
L’occhio non si sofferma sulle rovine causate dai secoli e dagli uomini e contempla, nella suggestione della incomparabile cornice formata dal serto smagliante di piante e di fiori che circonda il lago, il quadro più vivo dell’antichità classica che si sia mai presentato.
Sotto questo cielo, in questa luce di pagana bellezza, su questo stesso naviglio mosso da cento e cento remi, nel fulgore del fasto imperiale, Caligola salpava verso il misterioso tempio dal tetto dorato.
Lo spettacolo indimenticabile, l’ora d’intensa poesia vissuta, compensano le ansie e le amarezze che l’impresa largisce ai suoi fedeli.
Ma il livello delle acque aumenta inesorabilmente, l’enorme scafo viene quasi completamente sommerso, e la magica visione scompare, sostituita dal triste quadro di un vero naufragio.
Il Ministro della Marina - che aveva sempre sostenuto validamente la ricerca, intesa a riconquistare i più antichi documenti delle nostre tradizioni di costruttori navali - interviene però ancora una volta a dimostrare la necessità di salvare il prezioso cimelio: le pompe vengono di nuovo messe in efficienza e il 28 marzo 1932, dopo sette mesi di arresto, l’acqua riprende a defluire, attraverso l’emissario, al mare.
Il recupero arriva così finalmente a compimento e nell’ottobre, dopo quattro anni dall’inizio dei lavori, abbassato il lago di quasi 22 metri, si attua l’alaggio della seconda nave.
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Le vicende inerenti allo studio e alla realizzazione del Museo sono state descritte da Antonio Buongiorno, Ingegnere Capo del Genio Civile che, con l’Ing. Cesare Angelini, ne ha diretto la esecuzione, in base al progetto gentilmente offerto dall’Arch. Ballio che ha realizzato una costruzione mirabile per arditezza e per rispondenza alla funzione: anche qui L’opera è stata facilitata da notevoli contributi di industriali, raccolti dall’Eccellenza Gen. Pugliese del Ministero della Marina, assertore e collaboratore infaticabile dell’impresa in tutte le varie fasi.
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Anche da questo, pur sommario, riassunto, si palesa Il segreto del successo: perfezione di piani, organizzazione del lavoro, preparazione di mezzi, non sarebbero stati sufficienti infatti se non fossero stati sorretti ed animati da un’alta forza spirituale, da un poderoso fervore, dalla decisa volontà di condurre a termine ad ogni costo l’impresa: non si è lavorato per uno scopo materiale, ma per vincere.
Si potrebbero citare cifre e dati a dimostrare le ardue difficoltà e la mole delle opere compiute: ma più semplice ed eloquente è l’esame del diagramma di svaso: le variazioni di livello del lago registrano infatti giorno per giorno tutte le vicende della ricerca che, varie volte, ha purtroppo assunto l’aspetto della fatica di Sisifo!
Due sole cifre si vogliono ricordare a testimoniare l’ostinato durissimo sforzo: cinquanta milioni di metri cubi d’acqua sollevati e scaricati in mare; due milioni di kWh. convogliati dalle centrali idroelettriche degli Appennini ad azionare gli impianti idrovori.
Citazioni particolari sarebbero doverose per i lavori della Commissione nemorense e per la specifica attività svolta dai vari Ministri della E.N. e dal Direttore Gen. delle Antichità e B.A., Eccellenza Paribeni, che non ha cessato di occuparsi dell’impresa lasciando il suo ufficio, ma ne ha anzi seguito - se possibile - con sempre maggiore passione le vicende, quale Presidente di questo Istituto. Si dovrebbe ricordare la collaborazione di Giuseppe Cultrera, del compianto Ugo Antonielli e di Giuseppe Moretti: citare l’opera dei ministri e funzionari dei LL. PP., della Marina, della Guerra, dell’Aeronautica, e sarebbe pure giustificato riferire sull’attività del Comitato Industriale e specialmente del collega Augusto Biagini. Ma indubbiamente è più significativa e consona al nostro stile la visione d’insieme di tutte queste forze operanti strette in un fascio, tipico esempio di collaborazione di enti e di privati, postisi a servizio dello Stato in nome di un superiore ideale di scienza e di cultura.

I risultati dell’impresa
Il tempo ha ormai fatto giustizia delle ingenue lamentele per la mancata scoperta di favolosi e chimerici tesori venali.
Chi visita il museo - solennemente inaugurato dal DUCE il 21 aprile - si trova in presenza dei più preziosi cimeli navali che siano mai stati recuperati, preziosi veramente “unici” e tali da consentire visioni assolutamente insospettati della scienza e della tecnica di Roma.
Il Generale Rabbeno del Genio Navale e il Comandante Speziale della R. Marina che per primi hanno studiato questi scafi dalla linea elegante e armoniosa, ne hanno accertato le eccezionali qualità nautiche che sarebbero considerate ottime anche oggi e, con acuta analisi, hanno rilevato caratteristiche che potrebbero persino dimostrare la intuizione e la pratica applicazione di alcune fra le più moderne tendenze costruttive.
Il Ten. Col. Tursini, pure del Genio Navale, ha desunto da questi cimeli, dati ed elementi per una vasta trattazione sull’architettura navale romana, condotta su basi scientifiche.
Per quanto riguarda i particolari di costruzione, agli elementi già illustrati dal Malfatti si sono aggiunti rilievi di speciale interesse sulla razionale scelta delle essenze dei legnami, sui collegamenti dei vari elementi, sugli accorgimenti per evitare la corrosione delle chiodature, sulla lavorazione dei comenti e la accuratissima protezione delle carene, sulla singolare costruzione dei ponti a struttura composita; rilievi dovuti a Fiorenzo Tassan, a Guglielmo Gatti, al Vingiani, al Cormio.
Soltanto elementi parziali di studio hanno invece potuto essere desunti dagli impianti idraulici e dagli impianti di riscaldamento.
I due lunghi timoni decorati di teste leonine ed i corrispondenti giochi formanti ciascuno un tutto unico col piancito e con la scaletta di accesso alla prima nave, e la elegante ruota di prua rievocano grandiose, classiche visioni.
La seconda ha rivelato un elemento di particolare interesse: lo spazioso aposticcio che si sviluppava esternamente lungo i fianchi per l’appoggio dei remi e dei quattro timoni, disposti due a due alle estremità: lo scafo è simmetrico e per invertire il senso di traslazione si metteva appunto in servizio l’una o l’altra coppia di questi timoni.
Fra le attrezzature e gli impianti di bordo, alcuni identici in entrambe le navi, sono notevoli le pompe a stantuffo e le norie per il prosciugamento delle sentine ricostruite con amore dal Tassan che nei suoi lunghi colloqui con le navi è riuscito a strappare qualche segreto della costruzione e ad intuire qualche particolare delle strutture scomparse.
Varie tubazioni di piombo, un grande rubinetto di bronzo e avanzi di un serbatoio sulla prima nave potrebbero forse avvalorare l’ipotesi emessa da L.B. Alberti, di un impianto per le necessità di bordo atto ad essere approvvigionato con l’acqua di una sorgente presso Nemi.
Non è stato invece possibile identificare l’Impiego di varie serie di rulli in bronzo, cilindrici e sferici, nonché di rulli forse conici di legno, pure recuperati dalla prima nave: parte isolati, parte ancora applicati su frammenti di piattaforme circolari che, pur con soluzione imperfetta, precorrono di quasi due millenni i cuscinetti a sfere e a rulli delle moderne applicazioni meccaniche.
Porzioni di pavimenti di tipi diversi, serramenti, colonne di breccia, tegole ricoperte di rame dorato, consentono una visione suggestiva, per quanto frammentaria, delle soprastrutture di cui, attraverso resti, è possibile rievocare anche decorazioni e arredi.
Possono così rivivere i fregi in terracotta dipinti a vivaci policromie, i famosi ricchissimi rivestimenti di marmi preziosi e di mosaici di pasta vitrea, porfido e serpentino, i residui di eleganti tarsie di legno ed avorio, frammenti di sculture, e persino le piccole bullette dorate che dovevano fissare le stoffe sulle quali spiccavano piccoli quadri in cornici d’argento.
Ecco leggeri e delicati vasetti di terra sigillata, patere e brocche d’argento e di rame dorato, ecco le borchie e le maniglie dei serramenti per porte e finestre.
Ma gli elementi decorativi più importanti sono rappresentati dai classici bronzi delle strutture navali, miracolosamente salvati dai saccheggi, certamente iniziati ancor prima del naufragio e continuati poi per quasi due millenni.
Alla superba testa di Medusa, probabile ornamento della prua della prima nave, alla severa testa di leone sulla grande ghiera applicata sull’asse di un timone, alle quattro famose protomi ferine recuperate nel 1895, si sono ora aggiunte tutte le simmetriche decorazioni del fianco destro che hanno rivelato però anche due nuovi modelli: la testa tondeggiante di pantera dalla pelle maculata, resa ingegnosamente con tarsie di diverso colore, e una testa di lupo ringhiosa, singolarmente espressiva.
Della seconda nave, all’avambraccio con la mano apotropaica che decorava la testata di una trave fiancheggiante un timone - frutto della campagna del Borghi - si sono aggiunte ora altri due bronzi analoghi e cinque elegantissime erme bifronti raffiguranti sileni, satiri e menadi, di cui fra i relitti della prima si erano rintracciati solo frammenti delle basi.
L’elenco anche sommario dei cimeli recuperati non può omettere le piccole imbarcazioni e le due famose ancore estratte dal fondo melmoso: l’una in ferro rivestita con una guaina di legno, l’altra di legno con ceppo di piombo.
La prima, vero capolavoro di forgiatura è caratterizzata dal ceppo mobile e documenta una insospettata priorità sulla famosa ancora dell’ammiragliato di cui i noti brevetti inglesi: priorità che il Ministero della Marina ha rivendicato, ripristinando per questo attrezzo il nome appropriato di “ancora romana”.
La seconda permette finalmente la esatta conoscenza di questo tipo che era stato variamente ed erroneamente interpretato.
Nella delicata e straordinaria opera di scavo nel fango - condotta con ammirabile perizia dal Comandante Speziale - apparve alla luce persino la gomena d’ormeggio, con la grande gassa foggiata col caratteristico nodo d’ancora che è ancora oggi in uso: labile documento della sopravvivenza di antichissime ininterrotte tradizioni di lavoro.
La breve cinematografia documentaria che verrà proiettata immediatamente dopo la conferenza, illustrerà in modo evidente, insieme con vari particolari dell’impresa, anche questo scavo eccezionale, dimostrando l’interesse di tale documentazione nelle ricerche archeologiche.
La necessità di contenere questa esposizione in limiti ragionevoli di tempo, non concede di riferire su numerosi problemi di archeologia navale definitivamente risolti o inquadrati per ulteriori deduzioni e studi, né tanto meno di illustrare gli elementi acquisiti per la esatta interpretazione di vari passi di antichi scrittori, ritenuti prima d’ora inattendibili, o erroneamente considerati.
Anche senza entrare in particolari, si vuole però accennare alla emozione provata nel constatare la rispondenza delle descrizioni in Ateneo, della Siracusia di Gerone (260 a.C.) e della nave di Tolomeo Filopatore coi principali elementi costruttivi e decorativi delle navi nemorensi, non esclusa l’analogia delle singolari fastose soprastrutture.
Un accenno del tutto particolare deve infine essere concesso sulle nuove profonde conoscenze acquisite in vari settori della tecnica antica, rappresentata in queste costruzioni.
Il tessuto di lana applicato con mastice impermeabile a protezione delle carene, è il documento del notevole grado di perfezione raggiunto nell’allevamento delle razze ovine e nella tecnica di filatura e tessitura: l’analisi della R. Stazione Sperimentale di fibre tessili di Milano ha infatti rivelato alto grado di regolarità di calibro dei filati costituenti, e perfetta lavorazione di telaio, con titoli che la moderna tecnica difficilmente riesce a raggiungere.
Ma deduzioni di ancor maggiore rilievo sono consentite dallo studio dei prodotti della metallurgia e della meccanica.
Il ferro purissimo “Armco”, l’ultimo prodotto della siderurgia americana, studiato per resistere alla ossidazione, è rappresentato fra i cimeli nemorensi.
Un campione potrebbe persino comprovare un processo di cementazione, e il ferro dell’ancora, effettivamente inossidabile e inossidato, ha dimostrato la presenza di una notevole percentuale di rame, la cui favorevole azione è oggi ben conosciuta e spesso sfruttata praticamente.
Si potrebbe quasi affermare che la siderurgia romana ha indicato la via a quella moderna.
Il rame presenta un grado di raffinazione elevatissimo, certamente ottenute con forni a riverbero non molte di simili da quelli ancora oggi in uso.
Ma risultati ancor più sorprendenti ha dato lo studio dei vari tipi di bronzo che risultano differenziati ed esattamente appropriati secondo le diverse esigenze di impiego, e per di più praticamente rispondenti, nella composizione delle varie leghe e nelle applicazioni, alle più moderne prescrizioni delle tabelle “DIN” della normalizzazione tedesca.
Le analisi - tutte condotte coi più appropriati mezzi della chimica, della spettrografia e della micrografia - hanno anche appurato provenienze insospettate: un frammento di un bronzo presenta le stesse esatte caratteristiche della lega di classici specchi cinesi della dinastia degli Han (secondo secolo a.C. - primo secolo a.C.): e un intarsio applicato ad una protome ferina, contiene una elevata percentuale di nichel i cui minerali dovrebbero pure essere di provenienza orientale.
Da ultimo si può accennare alla documentazione di un processo tecnologico che doveva essere di semplice e facile applicazione, essendosi riscontrato in tutti i bronzi esaminati, ma che non è stato possibile stabilire come fosse realizzato: la saldatura autogena effettuata a temperatura prossima ai mille gradi.
La forgiatura, la laminazione e le lavorazioni meccaniche, pure eseguite a perfetta regola d’arte, non hanno necessità di speciali illustrazioni.
Quanto esposto consente pertanto di affermare la razionalità e la efficienza di una produzione e di una organizzazione alle quali sembra non fossero completamente ignoti i problemi, le ricerche, le realizzazioni, e persino le norme che caratterizzano la nostra moderna industria.

Il costruttore, la destinazione e la fondamento delle navi
Pirro Ligorio per primo ebbe ad indicare Caligola quale costruttore delle navi e l’attribuzione è stata confermata dallo studio delle iscrizioni sulle fistole plumbee e dall’esame dei bolli laterizi eseguiti da Guglielmo Gatti; né a risultati diversi è giunta la Prof. Cesano con l’acuto esame delle monete recuperate a bordo.
Quanto alla destinazione, prevale indubbiamente l’ipotesi emessa anche dall’Antonielli che richiamava i versi di Stazio per lumeggiare la visione di cerimonie religiose che dovevano celebrarsi a bordo.
E l’ipotesi di una destinazione sacrale può forse essere avvalorata anche dal risultato di analisi spettrografiche: dalla constatazione che erano rivestiti d’oro, oltre i bronzi ornamentali e le coperture in rame delle costruzioni erette sui ponti, anche tutti gli altri bronzi presumibilmente privi di ogni funzione decorativa, come il rubinetto, o addirittura sottratti alla vista, come le sfere delle piattaforme rotanti: dorate erano persino le chiodature delle carene: Decoro veramente inusitato ma degno omaggio di un Cesare alla Divinità.
Ignota rimane invece l’epoca dell’affondamento per noi provvidenziale, per quanto indubbiamente preceduto da una sistematica spogliazione continuata, come noto, anche per secoli dopo il naufragio. Naufragio del quale non sono stati recuperati solo cimeli materiali. L’interesse scientifico della ricerca è documentato nel volume edito da questo Istituto per i tipi del Poligrafico dello Stato, che sarà seguito da una interessantissima bibliografia sistematica pure destinata alla serie dell’Istituto.

L’attivo dell’impresa
Per considerare ora, in contrapposto a note pretese delusioni, una riassuntiva visione unitaria dei risultati raggiunti, è certo superfluo mettere in rilievo il cospicuo valore delle opere d’arte recuperate, che però in modo particolare interessano anche come oggetti reali e suggestivi sui quali ricostruire l’aureo sfarzo e il sommo splendore delle navi Imperiali.
Ma se anche più cospicuo fosse stato il recupero di tali opere si deve rilevare che ancor più di questa mirabile testimonianza deve essere considerato il valore scientifico veramente eccezionale delle insigni reliquie.
Questi cimeli, miracolosamente giunti sino a noi per un complesso di eccezionali circostanze, costituiscono, come aveva preconizzato l’Antonielli, le basi per lo studio dell’architettura navale dei romani e documentano - coi formidabili problemi di nautica vittoriosamente risolti - la capacità e il valore dei cantieri dell’impero.
Ma attrezzi e applicazioni meccaniche rivendicano anche significative priorità di invenzioni e affermano una vera perfezione di tecniche diverse e una insospettata razionalità della produzione.
In ogni campo esaminato si è così constatata una organizzazione tanto mirabile da consentire logiche deduzioni sul metodo, sulla disciplina e sulla legge generale che reggeva le forze produttive dell’impero.
Risultato di valore incomparabile per la storia della civiltà latina, per la storia della civiltà del mondo.
Questo l’attivo dell’impresa.
In contrapposto con tali inattese e preziose rivelazioni nel campo delle arti e delle industrie, permane invece inviolato il suggestivo mistero che aleggia sul lago.
Il recupero compiuto non lo ha rivelato: ne ha confermato l’essenza, dimostrando la inscindibile unità delle costruzioni imperiali col divino sacrario, l’arcana rispondenza fra il tempio e le navi.
Oggi, poiché lo spirito della nuova Roma riaccende dovunque l’amore per l’antica, auspichiamo pertanto nuove ed esaurienti ricerche archeologiche nella zona sacra del santuario, a continuare “l’alta opera di poesia” voluta dal Duce, a completare l’impresa che non fu mai così piena di premesse.
Ed egualmente auspichiamo più vaste, metodiche e profonde indagini sulla scienza, sulla tecnica e sulla continuità di questa tradizione della romanità, a integrare e fondere in un unico complesso I frammenti di verità e di conoscenze ora appena intraviste: a rivelare col quadro integrale delle forze operanti il vero volto di Roma, per giungere ad una più viva conoscenza dello spirito animatore, della struttura tecnica e della potenza dell’impero.”

Consistenza: pp. 18 (documento numerato per pagina)
Busta: 1
Fascicolo: 3
Tipologia fisica: foglio
Supporto: carta
Descrizione estrinseca: Documento dattiloscritto; mm 295 x 205.
Stato di conservazione: buono

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