2.2.8 - Il Giornale d'Italia

Segnatura: Sub-fondo Navi di Nemi, b. 1, fasc. 2: Cartella con lettere, disegni, etc. (Guido Ucelli) 1929-1941, sf. B.2, c. 8

Tipologia: unità documentaria
Titolo: Il Giornale d’Italia
Estremi cronologici: 1930 novembre 12

Contenuto: Ritaglio de “Il Giornale d’Italia” relativo all’articolo di G.C. Speziale dal titolo “L’antica Roma precorse la scienza navale moderna”.

Regesto:
Il comandante Speziale racconta il ritrovamento e lo stupore generale generato dal ritrovamento delle ancore delle Navi di Nemi e dal loro avanzatissimo livello tecnologico.

Trascrizione:
“Che cosa provano le ancore delle navi di Nemi
L’ANTICA ROMA PRECORSE LA SCIENZA NAVALE MODERNA
Nell’ultima seduta del Consiglio dei Ministri è stata deliberata la prosecuzione delle esplorazioni di Nemi per mettere allo scoperto la seconda nave. In vista della straordinaria importanza che per la storia del primato navale dell’Italia hanno le indagini nemorensi, pubblichiamo questa illustrazione delle due grandi àncore ultimamente scoperte, dovuta al comandante Speziale dell’Ufficio Storico della Marina, col gentile consenso della Direzione dei lavori archeologici.
Stavamo aggruppati intorno al fosso e seguivamo muti, in ansia ed attenzione, il moto delle pale: scrutavamo con rapido sguardo i solchi che man mano s’aprivano e ci teneva quella febbre e trepidazione che è propria in ogni scavo archeologico, mentre s’attende la rivelazione della cosa ignota, e curiosità e speranze son grandi e si fruga sempre più concitatamente e pur si paventa che un colpo maldestro spezzi e disperda nella terra, ancor prima che appaia, il fragile oggetto o il segno prezioso di altre vite e di altre arti.
Le peripezie di uno scavo
Ora è avvenuto che fra il monotono sciaguattare delle pale nel fango un altro rumore s’è avvertito più stridulo e roco, come di cozzo tra metalli, e gli sterratori si son fermati ed uno d’essi ha sollevato cauto il suo arnese che aveva, urtando e strisciando, dato quel suono. È assommata così dalla melma una grossa unghia metallica e quando colle dita uno dei terrazzieri l’ha liberata meglio, è apparsa in tutta la sua forma una mar-
Cautela tutt’in giro ci ha mostrato in che direzione giaceva il fuso; abbiamo limitato perciò l’opera di sterro in quella zona e in breve tutto il braccio della marra è stato liberato ed è apparso il diamante ed è apparsa poi l’altra marra e s’è avuta chiara l’impressione d’essere stati davvero fortunati. Una grande, impensata, fortuna. Già dalle proporzioni s’è capita tutta l’importanza di quel prezioso cimelio navale e tanto più raro perché di così grandi e di quell’epoca, cioè diciannove secoli or sono, non ve n’è in nessuno dei musei del mondo.
L’opera è continuata ansiosa e febbrile in una atmosfera di gioiosa esaltazione. Il fosso s’approfondiva, agli spalatori intenti al lavoro soprastava il grande braccio falcato ancora nerastro per il fango e madido e lucente: gli uomini, sempre più curvi e sempre più in basso, scoprivano il fuso e l’isolavano e apparivano mano a mano le gigantesche parti dell’àncora. Che libera oramai per un gran tratto e poderosa coi suoi cinque metri di fuso, coi suoi tre metri d’apertura di braccia, pareva riempisse tutta la fossa e campeggiava sugli uomini divenuti piccoli in fondo alla buca ed ostinati a lavorare come formiconi per scavare ancora e trarre l’inusitato oggetto da quella prigione di melma.
Muti e raccolti all’orlo del pozzo attendevamo ansiosi la fine di quest’avventura archeologica: è apparso il ceppo, un poderoso ceppo di piombo di tre metri e si è visto che il fuso continuava: per quanto? per un metro ancora? per meno? forse tra poche palate sarebbe apparsa la cicala, il grosso anello, e allora sì che si sarebbe potuta armare la capra per trar su dal fosso la nuova gloriosa scoperta.
Sono sceso nella buca alle spalle degli operai, li ho scostati da quella zona che mi pareva dovesse esser più cautamente frugata, ed ho preso a muover colle dita il fango risalendo lungo il ceppo per ritrovare l’anello. E insieme coll’anello la gomena che certamente ci sarebbe stata e che bisognava non far tagliare e spezzare e sparpagliare nella mota dagli sterratori ma isolare invece con grande attenzione per poter vederne i nodi e le fasciature e le impiombature: e cioè la parte più strettamente tecnica del nostro mestiere.
Stupore di tecnici
Dall’alto i compagni, muti del pari, seguivano ansiosi e gli operai tutt’intorno, curvi anch’essi, guardavano il ceppo che andavo ripulendo. E dopo pochi minuti c’è stata l’attesa novità: la grossa gomena è apparsa, prigioniera pur essa del fango insieme con molte funi piccole che fasciavano ed incravattavano il ceppo ed il fuso con perfettissima opera. Raggianti erano i compagni ed ammiravano quel pittoresco gruppo di corde appena affioranti dal fango mentre ne andavo ripulendo le varie passate e scavavo intorno intorno al grosso nodo che fermava la gomena all’ancora, per isolarla ancor meglio e far più palese ed evidente un sì pittoresco elemento, intatto e perfetto segno dell’abilità dei marinai di Roma.
Ed uno di noi, tecnico ed uomo di industria, ammirava con gioia la precisione e lodava l’esattezza e il senso di bella euritmia che aveva l’opera perfetta, e un altro, marinaio, s’esaltava dinanzi al mirabile esempio dell’esperienza navale di quella remota parte nostra, e un altro, uomo di scienza e di pazienza, ci diceva della gioconda impressione di vitalità e di forza che provava dinanzi a questa inusitata scoperta, tanto diversa dai soliti ritrovamenti archeologici dove la gioia dell’opera conquistata è quasi sempre appannata da un leggero umano rimorso dinanzi alle poche ossa del morto di cui si è turbata la pace per un egoistico desiderio di conoscenze e di bellezze. Gli operai ristavano anch’essi attoniti dinnanzi a sì pittoresco e inusitato spettacolo e facevano gran meraviglie.
E questo è stato il momento più bello di tutto lo scavo.
L’abbiamo riveduta poi con calma e pazienza quell’ancora quando lo scavo è stato sistemato e il fango meglio rimosso, e l’abbiamo misurata e disegnata ed esaminata con trepida gioia e l’abbiamo paragonata all’altra rinvenuta mesi or sono nella stessa zona e cioè a 200 metri dalla vecchia riva, dinanzi al tempio di Diana, lì dove le navi dovevano avere un loro consueto ormeggio e lì dove le ancore rimasero a fondo perché le gomene furono troncate.
Perché quell’ancoraggio fu abbandonato in forma così violenta e rapida?
Dovettero le navi allontanarsi così subitamente dalla terra per pericoli o necessità sorte d’Improvviso o invece fu una violenta tempesta, di grecolevante che fece spezzare quegli ormeggi e portò poi le navi in deriva ad infrangersi contro la spiaggia ed a naufragare qualche centinaio di metri più in là? Le ancore son rimaste dov’erano e le gomene son tesate com’è proprio del provese che si mette in forza dopo che il ferro ha preso nel fondo. Sono passati diciannove
Dando per il peso nel fango molle, un po’ ricoperte lentamente dall’humus portato giù dalle pioggie, quelle ancore sono sparite imprigionate nella viscida massa nera e lì son rimaste come chi sa quanti altri oggetti caduti da bordo o dispersi intorno intorno agli scafi al momento del naufragio. Su questo fango è cresciuto ore, in breve e rigoglioso, un canneto e la vegetazione nuova, s’è intricata e infittita e nasconde ogni cosa. Proprio nel falciare quegli arbusti è avvenuta, per caso, la scoperta della prima ancora nel luglio passato. La falce urtò contro qualcosa di metallico e l’uomo si chinò ad osservare la strana punta di ferro che usciva dal suolo lì tra le verdi canne, e volle incuriosito scavare un po’ intorno e vide che quella punta si allargava in un braccio metallico molto robusto e ricurvo, di inusitata forma e d’inspiegabile classificazione; corse, chiamò i compagni, chiamò i sorveglianti, scavarono e ritrovarono una grande ancora di ferro. Alta più di tre metri e sessanta e con un metro e ottanta d’apertura di braccia e con un grande ceppo, mobile per maggior comodità d’impiego, perché fosse cioè più agevole rimuoverlo e sfilarlo quando l’ancora doveva essere manovrata a bordo o rizzata sulla scarpa di navigazione.
Le arti meccaniche dei romani
Uno dei compagni ha posto il quesito sulla diversità delle due ancore ed ha chiesto perché l’ultima ritrovata fosse di legno e l’altra di ferro, anzi di ferro ma rivestita poi con grossi tronchi di quercia. È stato facile convincerlo della ragione della cosa con un breve calcoletto nel quale entrano i pesi ed i volumi delle due ancore, i rispettivi dislocamenti in acqua dolce ed in acqua salata, i conseguenti pesi totali come sforzo da compiere cogli argani per trarle su dal lago una volta affondate. E anche questa breve discussione ha convalidato l’innegabile tesi che le navi furono costruite ed armate ed equipaggia da marinai abilissimi ed adattate poi alle condizioni locali tanto diverse da quelle del mare.
La prima ancora, quella di ferro, che è una vera e propria ancora marittima mandata qui quasi certamente dall’arsenale di Baia, dai depositi della «classis misenensis», fu trovata troppo pesante per il lago e troppo faticosa ad esser salpata perché nel fango molle e tenace del tondo s’affondava troppo e vi rimaneva come invescata. Per alleggerirla e darle una più larga superficie d’appoggio che le impedisse di sprofondare fu aggiunta quella rivestitura di legno che s’è trovata ancora aderente al fuso e alle marre con fascioni e legature. Questa prima difficoltà, così bene girata ma non vinta del tutto, aguzzò l’ingegno di quei marinai che s’eran dovuti trapiantare sul placido specchio di Diana. Essi idearono e costruirono la seconda ancora, quella di legno, perché fosse più adatta alle speciali condizioni del lago, con breve ceppo di piombo che, coricandosi per primo sul fondo, assicurava la possibilità di mordere ad una delle marre. Queste ebbero una lunga unghia di ferro terminata in cuspide perché potesse meglio tenere nel fango ed il ceppo ed il fuso furono irrobustiti e legati fra loro dall’industriosa trovata delle fasciature di cavo.
Ma è il particolare del ceppo quello che più colpisce i competenti di materia marinaresca; quell’ancora pare cosa d’oggi, di simil ne adopriamo tuttora e le chiamiamo ancora «Ammiragliato», perché furono introdotte nella marina inglese, per la prima volta, in seguito al decreto di quell’Ammiragliato nel 1832. Quando cioè un certo Captain Rodger, che si era fatta la sua brava esperienza navigando sui vascelli di Sua Maestà, pensò di modificare a quel modo il vecchio e tradizionale tipo di ancora che aveva sempre avuto un grosso ceppo fisso di travi di quercia e che dava appunto, per questa sua ingombrante appendice, molto fastidio nella manovra. Una scoperta come quella del tradizionale uovo di Colombo questa dell’ancora a ceppo mobile, ma che risale ad ogni modo a settant’otto anni fa. E questa di Nemi allora? È la più patente dimostrazione che i romani avevano marinai pratici ed intelligenti ed esperti, che eran passati cioè attraverso tutti gli stadii di esperienza e conoscenza che abbiamo percorso poi mano mano, come l’arte nautica è stata ripresa e sviluppata e modificata, mentre le scienze percorrevano il loro trionfale cammino nella storia della civiltà.
Quante sono le cose che crediamo di aver scoperto in questi ultimi cinquant’anni e che i Romani invece conoscevano già? Vedete un po’ quello che s’è trovato a Nemi: una pompa a due cilindri, una noria, dei rubinetti conici, i cuscinetti a sfera, le leghe di metalli inossidabili. E allora?
Allora è necessario riveder tutto ciò con nuovi criteri e nuovi intenti e studiare queste cose con ben diverso
Navi di Nemi ci stanno dando il più bello e completo museo delle scienze meccaniche e costruttive dei tempi di Roma.
Cercavate le statue e le colonne, i bronzi ed i musaici che v’avevano detto ci fossero? Ci saranno stati magari ma non dobbiamo preoccuparcene eccessivamente se non se ne trovano: di simili oggetti d’arte ne abbiamo nei musei d’Italia un numero infinito e ne avremo ancora chissà quanti da Pompei e da Ercolano che sono miniere ricchissime.
È ben diversa la documentazione che dobbiamo cercar qui che non avevamo mai trovata ed abbiamo invece abbondantissima ed insperata e tanto più importante perché varrà a restituire a Roma, anche nel campo delle arti meccaniche, i meriti e le glorie di una progredita civiltà. Quell’arte meccanica romana che sin’ora era affermata solo dagli storici e dai letterati antichi e ci pareva inverosimile e si diceva linguaggio di fantasiosa e poetica esaltazione.
Ora tocchiamo con mano quelle inverosimili cose e tutto il mondo stupisce.
Vi par poco notevole questo fatto dell’àncora brevettata settantotto anni fa in Inghilterra e simile a quella ritrovata ora a Nemi e che è, al minimo, di mille ottocento ottantanove anni fa? Non faremo certo la rivendicazione dei diritti d’autore per tante graziosissime ragioni ed anche perché, se caso mai ci fosse stato un brevetto, esso sarebbe prescritto a diciotto secoli di distanza. Rimane però il segno tangibile di una priorità d’esperienza e di scienza navale romana e questa, oramai, non può contestarla nessuno.
G. C. SPEZIALE“

Consistenza: c. 1
Busta: 1
Fascicolo: 1
Tipologia fisica: foglio
Supporto: carta
Descrizione estrinseca: Ritaglio di giornale a stampa; mm 580x200, Sul margine superiore destro, a matita: G. d’It. 12-nov. 30.

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