Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell'Arte

(Italiano) Contro il mito dello stato sovrano

Luigi Einaudi

Contro il mito dello stato sovrano

«Risorgimento liberale», 3 gennaio 1945

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In una lettera indirizzata a Luigi Albertini, direttore del Corriere della Sera e pubblicata (a firma "Junius" e ristampata dai Laterza di Bari [1920] nelle Lettere politiche di Junius) nel numero del 5 gennaio 1918, criticavo i disegni di una costituenda "Società delle nazioni", quando altri [Mussolini], che poi fu gran parte nel distruggerla, presiedeva ad una adunata di popolo indetta allo scopo di propugnare la costituzione di una associazione italiana per il promuovimento della idea societaria. Sostenevo nella lettera la tesi che l'idea medesima della società delle nazioni era sbagliata in principio e perciò caduca e promuovitrice di guerra. Facile era la profezia; ché il presidente Wilson, apostolo nobilissimo dell'idea della società delle nazioni, non aveva bisogno di appellarsi ad esempi storici memorandi di insuccesso, come quelli della lega anfizionica del sacro romano impero di nazione germanica o della santa alleanza. Gli bastava guardarsi indietro, indagando le ragioni per le quali i tredici stati originari del suo grande paese avevano dovuto mutare alla radice il loro ordinamento. Scrivevo in quella oramai vecchia lettera:

Leggesi in tutte le storie come gli Stati uniti siano vissuti sotto due costituzioni: la prima disposta dal congresso del 1776 ed approvata dagli stati nel febbraio 1781, la seconda approvata dalla convenzione nazionale il 17 settembre 1787 ed entrata in vigore nel 1788. Sotto la prima, l'unione nuovissima minacciò ben presto di dissolversi; sotto la seconda gli Stati Uniti divennero giganti. Ma la prima parlava appunto di "confederazione ed unione" dei 13 stati, come oggi si parla di "società delle nazioni" e dichiarava che ogni stato «conservava la sua sovranità, la sua libertà ed indipendenza ed ogni potere, giurisdizione e diritto non espressamente delegati al governo federale». La seconda invece non parlava più di «unione fra stati sovrani», non era più un accordo fra governi indipendenti; ma derivava da un atto di volontà dell'intero popolo, il quale creava un nuovo stato diverso e superiore agli antichi stati. «Noi - così dice lapidariamente il preambolo della vigente costituzione federale - noi, popolo degli Stati Uniti, allo scopo di fondare una unione più perfetta, stabilire la giustizia, assicurare la tranquillità interna, provvedere per la comune difesa, promuovere il benessere generale e garantire le benedizioni della libertà per noi e per i posteri nostri, decretiamo e fondiamo la presente costituzione per gli Stati Uniti d'America». Ecco sostituito al "contratto", all'"accordo" fra stati sovrani per regolare "alcune" materie d'interesse comune, l'"atto di sovranità del popolo americano tutto intero", il quale crea un nuovo stato e gli dà una costituzione e lo sovrappone, in una sfera più ampia, agli stati antichi, serbati in vita in una sfera più ristretta. Ve n'era urgente bisogno. Quei sette anni di vita, dal 1781 al 1787, della “società” delle 13 nazioni americane erano stati anni di disordine, di anarchia, di egoismo tali da far rimpiangere a molti patrioti il dominio inglese e da far desiderare a non pochi l'avvento di una monarchia forte, che fu invero offerta a Washington e da questi respinta con parole dolorose, le quali tradivano il timore che l'opera faticosa sua di tanti anni non dovesse andare perduta. La radice del male stava appunto nella sovranità e nell'indipendenza dei 13 stati. La confederazione, appunto perché era una semplice "società" di nazioni, non aveva una propria indipendente sovranità, non poteva prelevare direttamente imposte sui cittadini. Dipendeva quindi, per il soldo dell'esercito e per il pagamento dei debiti contratti durante la guerra della indipendenza, dal beneplacito dei 13 stati sovrani. Il congresso nazionale votava spese, impegnava la parola della confederazione e per avere i mezzi necessari indirizzava richieste di denaro ai singoli stati. Ma questi o negligevano di rispondere o non volevano, nessuno tra essi, essere i primi a versare le contribuzioni nella cassa comune.

«Dopo brevi sforzi, - così scrive il giudice Marshall nella sua classica Vita di Washington, riassumendo le disperate ripetute invocazioni e lagnanze che a centinaia sono sparse nelle lettere del grande generale e uomo di stato, - dopo brevi sforzi compiuti per rendere il sistema federale atto a raggiungere i grandi scopi per cui era stato istituito, ogni tentativo apparve disperato e gli affari americani si avviarono rapidamente ad una crisi, da cui dipendeva la esistenza degli Stati uniti come nazione... Un governo autorizzato a dichiarare guerra, ma dipendente da stati sovrani quanto ai mezzi di condurla, capace di contrarre debiti e di impegnare la fede pubblica al loro pagamento, ma dipendente da tredici separate legislature sovrane per la preservazione di questa fede, poteva soltanto salvarsi dall'ignominia e dal disprezzo qualora tutti questi governi sovrani fossero stati amministrati da persone assolutamente libere e superiori alle umane passioni».

Era un pretendere l'impossibile. Gli uomini forniti di potere non amano delegare questo potere ad altri; ed è perciò quasi impossibile, conchiude il biografo, «compiere qualsiasi cosa, sebbene importantissima, la quale dipenda dal consenso di molti distinti governi sovrani». Ed un altro grande scrittore e uomo di stato, uno degli autori della costituzione del 1787, Alessandro Hamilton, così riassumeva in una frase scultoria la ragione dell'insuccesso della prima società delle nazioni americane: «Il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche è un puro nome».

Questi ammonimenti solenni non possono essere dimenticati. Oggi, vi è in Italia un gruppo di giovani, temprati alla dura scuola della galera e del confino nelle isole, il quale è deliberato a mettere il problema della federazione in testa a tutti quelli i quali debbono essere discussi nel nostro paese. Non senza viva commozione ricevetti, durante i lunghi trascorsi anni oscuri, una lettera scrittami dal carcere da Ernesto Rossi, nella quale mi si ricordava l'antica lettera e mi si diceva il suo deliberato proposito di volere operare per tradurre in realtà l'idea federalistica. L'opera sinora si è forzatamente limitata, dentro e fuor del confino, in Italia ed all'estero, a convegni, ad opuscoli, fogli tiposcritti e giornaletti a stampa. Sia consentito all'antico oppugnatore dell'idea societaria, di aggiungere, agli opuscoli già divulgati in materia, una professione di fede.

Noi federalisti non difendiamo una tesi la quale sia a vantaggio di alcun paese egemonico, né dell'Inghilterra, né degli Stati Uniti, né della Russia. Vogliamo porre il problema nei suoi nudi termini essenziali, affinché l'opinione pubblica conosca esattamente quali condizioni debbano essere necessariamente osservate affinché l'idea federale possa contribuire, invece di porre ostacoli, al mantenimento della pace. Se si vuole fra venticinque anni una nuova guerra la quale segni la fine d'Europa, si scelga la via della società delle nazioni; se si vuole tentare seriamente di allontanare da noi lo spettro della distruzione totale, si vada verso l'idea federale. La via sarà tribolata e irta di spine; né la meta potrà essere raggiunta d'un tratto. Quel che importa è che la meta finale sia veduta chiaramente e si intenda strenuamente raggiungerla.

Perché l'idea della società delle nazioni è infeconda e distruttiva? Perché essa è fondata sul principio dello stato "sovrano". Questo è oggi il nemico numero uno della civiltà umana, il fomentatore pericoloso dei nazionalismi e delle conquiste. Il concetto dello stato sovrano, dello stato che, entro i suoi limiti territoriali, può fare leggi, senza badare a quel che accade fuor di quei limiti, è oggi anacronistico ed è falso. Quel concetto è un idolo della mente giuridica formale e non corrisponde ad alcuna realtà. In un mondo percorso da ferrovie, da rapide navi, da aeroplani, nel quale le distanze sono state annullate da telegrafi e telefoni con o senza fili, gli stati, che un giorno parevano grandi, come l'Italia, la Francia, la Germania, l'Inghilterra, a tacer di quelli minori, sono diventati piccoli come nel quattrocento eransi rimpiccioliti i liberi comuni medievali, e Firenze e Bologna e Milano e Genova e Venezia avevano dovuto dar luogo a più ampie signorie e queste poi nel 500 e nel 600 dovettero cedere il passo dinnanzi ai grandi stati moderni. Pensare che uno stato, sol perché si dice sovrano, possa dare a se stesso leggi a suo libito, è pensare l'assurdo. Mille e mille vincoli legano gli uomini di uno stato agli uomini di ogni altro stato. La pretesa alla sovranità assoluta non può attuarsi entro i limiti dello stato sedicente sovrano. Gli uomini, nella vita moderna signoreggiata dalla divisione del lavoro, dalle grandi officine meccanizzate, dalle rapide comunicazioni internazionali, dalla tendenza ad un elevato tenore di vita, non possono vivere, se la loro vita è ridotta ai limiti dello stato. Autarchia vuol dire miseria; e necessariamente spinge gli uomini alla conquista. Gli uomini viventi entro uno stato sovrano debbono, sono dalla necessità del vivere costretti ad assicurarsi fuor di quello stato i mezzi di esistenza, le materie prime per le proprie industrie e gli sbocchi per i prodotti del loro lavoro. Qualunque sia il regime sociale che gli stati si sono dato, essi sono costretti alla conquista dello spazio vitale. L'idea dello spazio vitale non è frutto di torbide immaginazioni germaniche od hitleriane; è una logica fatale conseguenza del principio dello stato sovrano. Quella idea non ha limiti. Necessariamente porta al tentativo di conquista nel mondo. Andrebbe al di là, se fosse fisicamente possibile. Non esiste uno spazio vitale autosufficiente. Quanto più uno stato si ingrandisce, tanto più le sue industrie ingigantiscono e diventano voraci assorbitrici di materie prime e bisognose di mercati sempre più ampi. Quando pare di essere giunti alla fine, sempre fa difetto una materia essenziale, senza di cui il meccanismo economico, divenuto colossale, si incanta. La necessità del dominio mondiale è carne viva e sangue rosso indispensabile alla vita del mito dello stato sovrano. Ossia, poiché tutti gli stati sovrani vantano il medesimo e giusto diritto allo spazio vitale, al dominio mondiale, perché senza di esso non possono vivere o vivrebbero solo se si rassegnassero ad una vita miserabile economicamente ed oscura spiritualmente, indegna della società umana, il mito dello stato sovrano significa, è sinonimo di "guerra". La guerra del 1914-18, quella presente e l'orrenda maggiore carneficina che si prepara per l'avvenire furono sono e saranno il risultato necessario del falso idolo dello stato sovrano. Uomini più ossessionati degli altri hanno assunto la responsabilità di scatenare gli eccidi. Ma la causa profonda era la falsa idea della quale essi si fecero apostoli.

Fa d'uopo che tutti ci facciamo apostoli dell'idea contraria. Quella della società delle nazioni non solo è monca, ma va contro il fine che si vuol raggiungere. Poiché essa è ancora una lega fra stati "sovrani", essa rinnega il principio dal quale muove. Ponendoli gli uni accanto agli altri, acuisce gli attriti fra stati, li moltiplica, proclama al mondo la volontà degli uni a non volere adattarsi all'uguale volontà degli altri, epperciò cresce le occasioni di guerra.

Altra via d'uscita non v'è, fuor di quella di mettere accanto agli stati attuali un altro stato. Il quale abbia compiti suoi propri ed abbia un popolo "suo". Invece di una società di stati sovrani, dobbiamo mirare all'ideale di una vera federazione di popoli, costituita come gli Stati Uniti d'America o la Confederazione elvetica. Gli organi supremi, parlamento e governo, della confederazione non possono essere scelti dai singoli stati sovrani ma debbono essere eletti dai cittadini della confederazione. Esercito unico e confine doganale unico sono le caratteristiche fondamentali del sistema. Gli stati restano sovrani per tutte le materie che non siano delegate espressamente alla federazione; ma questa sola dispone delle forze armate, ed entro i suoi confini vi è una cittadinanza unica ed il commercio è pienamente libero. Fermiamoci a questi punti che sono gli essenziali e da cui si deducono altre numerose norme. Entro i limiti della federazione la guerra diventa un assurdo, come sono divenute da secoli un assurdo le guerre private, le faide di comune e sono represse dalla polizia ordinaria le vendette, gli omicidi ed i latrocini privati. La guerra non scomparirà, ma sarà spinta lontano, ai limiti della federazione. Divenute gigantesche le forze in contrasto, anche le guerre diventeranno più rare; finché esse non scompaiano del tutto, nel giorno in cui sia per sempre fugato dal cuore e dalla mente degli uomini l'idolo immondo dello stato sovrano.