La storia della parte del mondo che si rifà alla matrice greco-cristiana ci fornisce la dimostrazione del fatto che la cultura — nel senso alto della parola — fiorisce là dove si trova il potere e si isterilisce nei luoghi che il potere abbandona. I casi più manifesti di questa correlazione sono stati l’abbandono da parte delle scienze e delle arti del territorio della Grecia antica dopo che questa, concluso il ciclo storico della città-Stato, aveva perso, con la conquista macedone prima e romana poi, la sua indipendenza di fatto; e la generale decadenza della civiltà in Italia dopo che questa fu esclusa dal processo della nascita e del consolidamento dello Stato moderno nell’Europa del Rinascimento. Va da sé che le vicende del potere e quelle della cultura presentano comunque uno sfasamento temporale. Quello della nascita, dello sviluppo e della morte di una cultura è un processo lento, che presuppone la formazione di una società colta e di una tradizione che il potere non può decretare da un giorno all’altro e che ha un grado di inerzia che ne prolunga la durata anche dopo che la situazione di potere è mutata. Non per nulla la fioritura della cultura greca è continuata relativamente a lungo anche dopo la fine della Guerra del Peloponneso, che ha segnato la fine della potenza ateniese nel Mediterraneo; mentre il Rinascimento italiano ha dato frutti straordinari per un lungo periodo dopo la discesa di Carlo VIII e dopo che il sogno di unità di Machiavelli si era rivelato irrealizzabile; e si è prolungato, grazie al mecenatismo nella Roma del ‘600. Ma la correlazione esiste: e ciò è tanto vero che, malgrado la diffusione della cultura greca a Roma e nel territorio dell’impero di Alessandro Magno, l’area geografica dell’antica Grecia, dopo le conquiste macedone e romana, è culturalmente scomparsa per due millenni dal proscenio della storia e all’Italia è toccata una sorte analoga per tre secoli. Si tratta di un fatto di rilievo incalcolabile perché la cultura è il campo nel quale lo spirito esprime le sue potenzialità più elevate e rende la vita umana degna di essere vissuta. La desertificazione culturale di una regione di grandi tradizioni artistiche e scientifiche significa quindi per le generazioni che vi si succedono la disumanizzazione e l’imbarbarimento della convivenza.
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Un fenomeno simile è in corso oggi in Europa nei confronti degli Stati Uniti. Alcuni suoi aspetti sono così evidenti da essere generalmente riconosciuti: primo tra tutti quello che riguarda la ricerca scientifica, la cui condizione in Europa è deplorevole (con la parziale eccezione, che vale peraltro non solo per la ricerca scientifica, ma per la cultura in generale, della Gran Bretagna, grazie ai suoi legami privilegiati di natura politica, storica e linguistica con gli Stati Uniti). E’ noto che un giovane europeo con attitudini alla ricerca deve compiere la scelta dolorosa tra la rinuncia alla propria vocazione e l’emigrazione verso gli Stati Uniti (o, in subordine, la Gran Bretagna). E’ così che gli Stati dell’Europa continentale si sobbarcano l’onere della formazione di giovani scienziati di valore per mandarli a produrre risultati scientifici oltreoceano (dove peraltro la scuola secondaria si trova in uno stato lamentevole e svolge in modo insufficiente il suo compito formativo).
Un altro aspetto di indiscutibile evidenza è quello della cultura popolare, che va dal modo di vestire, all’alimentazione, alla musica leggera, al cinema, al linguaggio quotidiano. Si tratta del fenomeno largamente deplorato, ma non compreso, dell’americanizzazione della società. Si noti che in questo campo il pericolo non sta soltanto nella volgarità della cultura popolare americana. Quando un prodotto si rivolge a un pubblico di centinaia di milioni di persone difficilmente esso si sottrae al pericolo di essere volgare: e comunque assai spesso i succedanei nostrani di certe espressioni della cultura popolare americana le superano largamente in volgarità. Il problema vero è che questo è il segno di una crescente incapacità dell’Europa di produrre cultura, che non si arresta alla frontiera — peraltro assai mal definita — tra cultura popolare e cultura nel significato elevato della parola, ma sta coinvolgendo in modo sempre più evidente il campo di quest’ultima. Del resto le pretese «eccezioni culturali» rivendicate da questo o quel paese europeo sono in genere eccezionali soltanto per la loro mediocrità.
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Bisogna ricordare che la grande maggioranza degli artisti viventi o comunque attivi di recente nel campo delle arti visive è o è stata attiva negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove esistono i più grandi musei d’arte moderna (oltre che molti dei più grandi musei d’arte in generale), le più grandi case d’aste, le più grandi gallerie e i più grandi collezionisti privati. Lo stesso discorso vale per la letteratura. Gli scrittori dispongono, se si esprimono in inglese, di un enorme mercato e di un’editoria in grado di soddisfarne le richieste, mentre in essi sono scoraggiati dalle dimensioni asfittiche del mercato e dalle alee della traduzione, spesso arbitraria nella scelta dei testi, sempre impossibile nel caso della poesia e imperfetta in quello della narrativa. New York è il più grande laboratorio mondiale dell’architettura contemporanea (anche se Berlino ha avuto una grande — anche se effimera — capacità di attrazione in questo settore quando essa è diventata il simbolo della riunificazione tedesca). Americani e inglesi sono i grandi teatri di prosa del mondo, in grado di proporre continuamente nuovi autori e di formare e rinnovare grandi compagnie o compagnie sperimentali di giovani. Come accade per le scienze della natura, cosi per la politica, l’economia e le scienze sociali le scuole più prestigiose si trovano negli Stati Uniti (e in parte in Gran Bretagna), e in questi paesi sono pubblicate le riviste più importanti, tanto che la più grande distinzione per uno studioso non anglosassone del settore è di poter pubblicare un proprio contributo in una di esse. Non si dimentichi infine il grande strumento di diffusione della cultura che è costituito da Internet e il grande beneficio che gli Stati Uniti traggono dal loro sostanziale controllo della rete, dal divario tecnologico che li avvantaggia nei confronti dell’Europa e dalla conseguente migliore qualità dei loro siti. Le sole parziali eccezioni a questo processo di impoverimento culturale dell’Europa che è forse possibile ipotizzare riguardano la musica colta e la storiografia: la prima perché è indissociabile dalla continua reinterpretazione di grandi opere del passato; la seconda trae stimolo e giovamento dalla circostanza che l’Europa è l’ambito territoriale nel quale si è svolta, fino alla prima metà del XX la maggioranza degli avvenimenti che hanno generato l’attuale civiltà occidentale e nel quale esistono i maggiori depositi di documenti attraverso i quali essi possono essere studiati.
Ma l’America (e in parte la Gran Bretagna) non è soltanto terra di immigrazione di artisti e uomini di cultura. Essa è anche terra di importazione di prodotti culturali. Mentre i governi e i privati europei svendono il proprio patrimonio artistico e culturale per far quadrare i loro bilanci, Stati Uniti e Gran Bretagna lo incrementano con continui acquisti. In questo modo l’immensa ricchezza artistica che l’Europa di oggi ha ereditato dal suo lungo passato viene progressivamente depauperata a profitto del mondo anglosassone per l’incapacità di conservarla e di gestirla, cosi come in passato i patrimoni di civiltà decadute o scomparse, come quelle italiana, egizia, assiro-babilonese e greca, erano stati saccheggiati dalle grandi monarchie europee.
Ciò non significa che in America esistano soltanto o prevalentemente artisti e uomini di cultura di valore, mentre in Europa non ne esisterebbero più. Il fatto che sull’America (e in parte sulla Gran Bretagna) siano puntate le luci della ribalta attribuisce spesso una notorietà immeritata a ciarlatani e a venditori di fumo, mentre il fatto di lavorare nell’ombra e in mezzo a mille difficoltà in Europa può favorire la maturazione, anche se spesso misconosciuta, di veri talenti. Ma l’esistenza di una chiara linea di tendenza alla trasmigrazione della cultura verso gli Stati Uniti (e in parte verso la Gran Bretagna) non può essere negata, perché l’impulso che il mecenatismo pubblico e privato hanno dato in quei paesi agli strumenti per la sua creazione e diffusione crea una comunità nella quale ai ciarlatani si mescolano i talenti, ed entrambi contribuiscono a creare un’atmosfera nella quale questi ultimi trovano comunque incoraggiamenti e stimoli decisivi.
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Il potere influenza la cultura sia attraverso commesse dirette di prodotti culturali da parte dei governi nazionali o di quelli regionali e locali e delle loro agenzie, soprattutto nei settori dell’architettura e della scultura, che attraverso la creazione delle condizioni per l’estensione e il rafforzamento del mercato della cultura. La cultura, e l’arte in particolare, hanno bisogno di un vasto pubblico colto e ricco che apprezzi ed acquisti i suoi prodotti e di un ambiente che stimoli, offrendo modelli e suggestioni e creando legami di conoscenza, la creatività di coloro che la producono, come è accaduto a Parigi, Vienna e Berlino fino all’avvento del nazismo o all’inizio della seconda guerra mondiale. Per questo è necessario che il potere, oltre a promuovere la diffusione della ricchezza, incoraggi la creazione delle istituzioni (biblioteche, musei, teatri, enti musicali) che consentono lo sviluppo di una vera e propria comunità tra i produttori e i fruitori di cultura e di arte, incentivi il mecenatismo e abolisca, grazie ad una legislazione uniforme, le barriere alla circolazione dei prodotti culturali. In ogni caso è necessario che la società interessata produca un surplus che possa essere destinato, tramite l’iniziativa pubblica o il mecenatismo, che comunque persegue l’interesse pubblico, alla promozione della cultura. Ed è un dato di fatto che oggi questo surplus viene prodotto dall’economia della potenza americana, e in minor misura del suo satellite britannico, mentre non viene prodotto dalle economie asfittiche degli Stati dell’Europa continentale, condizionate dalla loro divisione ad una strutturale politica deflazionistica che non lascia spazio ad iniziative intese ad incoraggiare la ricerca e la creazione.
E’ evidente, è bene ripeterlo, che ciò non significa che anche oggi non possano esistere grandi spiriti isolati, per i quali l’elaborazione della cultura è un fatto esclusivamente interiore. Ma si tratta di eccezioni. Non è un caso che in genere la cultura si concentri in località e attraggono da tutto il mondo letterati e artisti. E i bacini di utenza costituiti dagli Stati del continente europeo non sono più né abbastanza vasti né abbastanza ricchi da fare delle loro capitali dei grandi centri di elaborazione e di attrazione delle scienze e delle arti.
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Un importante veicolo per la formazione di un mercato e di un ambiente della cultura è indubbiamente la lingua. L’esistenza di una lingua comune costituisce un humus importante per far germogliare e diffondere nuove esperienze, anche in quelle espressioni che non si servono direttamente del veicolo del linguaggio. Ma la lingua non è un fatto neutrale rispetto al potere. Essa segue il potere e si diffonde tanto più quanto più è vasta la sfera di influenza del paese (o di uno dei paesi) nei quali essa è parlata come lingua madre. L’attuale egemonia dell’inglese non è che il risultato dell’egemonia degli Stati Uniti nel mondo.
Ma, al di là di questi fattori, di natura in ultima istanza materiale, gioca un ruolo decisivo l’esistenza di quello slancio spirituale che è sempre presente nei popoli il cui potere è in espansione, e si affloscia nei popoli che non sanno darsi un’organizzazione statuale capace di affrontare i problemi della loro epoca, e che il potere abbandona. Si tratta cioè dell’importanza, per un rigoglioso sviluppo della cultura, dell’esistenza di una comunità politica legata da un forte sentimento di solidarietà fondato anche, se non soltanto, sulla consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti del resto del mondo o, in passato, della sua parte conosciuta. Non si deve dimenticare che la musica, la danza, la poesia, il teatro hanno avuto la loro origine nelle feste che periodicamente riunivano le comunità primitive per rafforzare i legami di appartenenza dei loro membri. Nelle grandi civiltà attuali non è più pensabile far partecipare periodicamente i cittadini a grandi spettacoli collettivi, nei quali ognuno di essi diventi insieme creatore e spettatore. Ma i rapporti tra cultura e senso di appartenenza non si sono per questo rilasciati, pur avendo cambiato di natura. Anche se rimane vero che esiste una cultura della decadenza, che si prolunga al di là del periodo di massima fioritura di un popolo, è un dato di fatto che i periodi di più intensa vita culturale sono quelli nei quali coloro che ne sono i protagonisti sono consapevoli di creare per una comunità che ha un ruolo da svolgere e una missione da compiere nel mondo. In America (e in parte in Gran Bretagna) la consapevolezza di questo ruolo c’è, per quanto se ne possano criticare le manifestazioni. Negli Stati in disfacimento dell’Europa continentale la consapevolezza di questo ruolo non c’è, per il semplice motivo che essi non hanno più alcun ruolo.
A ciò si aggiunga un’ultima considerazione, che non è certo la meno importante. Proprio perché la cultura ha bisogno di un pubblico, è necessario che le sue creazioni siano esposte, rappresentate, eseguite e pubblicate in luoghi sui quali si concentra l’attenzione dell’umanità. E questi luoghi sono in primo luogo quelli nei quali si esercita il potere, quelli nei quali si prendono le decisioni dalle quali dipende il destino di ciascuno.
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L’attuale fioritura culturale degli Stati Uniti non è senza ombre. Al contrario. Essi sono un paese giovane, che della giovinezza ha la vitalità, ma anche, in molti aspetti della sua civiltà, la rozzezza. A ciò si aggiunga che il prolungato esercizio da parte della potenza americana di responsabilità mondiali sia prima che dopo la fine della Guerra fredda ha avuto un pesante costo in termini sia economici che politici. L’attuale potere degli Stati Uniti è quindi insieme imponente e fragile. Esso è messo in discussione in quasi tutte le regioni del mondo nelle quali viene esercitato, e negli Stati Uniti stessi, e si afferma quasi esclusivamente grazie alla forza militare, anziché grazie ad una coincidenza di fondo tra gli interessi della potenza egemone e quelli dei suoi alleati o satelliti. Ciò non può non avere conseguenze nell’ambito della cultura, nel quale il predominio americano si afferma comunque a prezzo di contestazioni; e la qualità della produzione culturale della potenza egemone soffre del fatto di essere parzialmente messa al servizio dei disegni di un potere spesso brutale, e che insieme non è all’altezza delle proprie responsabilità. Si tratta di un tipo di egemonia che non può non essere accompagnata da un’atmosfera nazionalista e imperialista che comporta cadute di obiettività e di gusto. Ciò non toglie che il predominio americano, per quanto sostenuto assai debolmente da chi lo subisce, è destinato a permanere fino a che non si profilerà nel mondo un equilibrio alternativo, nel quale nuovi poli si affianchino Stati Uniti per garantire un ordine mondiale più pacifico e fondato sul consenso e la collaborazione. Questo nuovo equilibrio, lungi dall’indebolire, rafforzerebbe, insieme a quello degli altri poli, il potere Stati Uniti, rendendolo più solido e più stabile. Ma fino a che ciò non accadrà, l’egemonia culturale americana, per quanto basata su canoni e modelli in parte viziati da una situazione di potere fortemente squilibrata, non soltanto permarrà, ma si accentuerà.
Resta il fatto che il predominio culturale degli Stati Uniti, a causa delle condizioni nelle quali viene esercitato, non compensa la decadenza della cultura europea e segna una fase di generale impoverimento della cultura mondiale. Perché questa tendenza si inverta è necessario che negli USA la cultura si liberi da ogni condizionamento nei confronti di un potere in difficoltà e dell’ideologia sulla quale questo fonda i rapporti con i suoi cittadini; e che essa riprenda slancio in Europa, cioè nella regione del mondo che è stata l’alveo nel quale le arti, le scienze e la filosofia si sono sviluppate lungo un percorso storico durato duemilacinquecento anni, dando un enorme contributo all’attuale stadio di avanzamento civile del genere umano. La responsabilità di questo mutamento epocale non grava certo sugli Stati Uniti, bensì sull’Europa, che soltanto con la propria unità politica potrebbe riacquistare il potere perduto, assumere di nuovo le responsabilità mondiali che le competono e creare così le condizioni politiche per il proprio risveglio culturale. Si noti che non si tratta di far rinascere nostalgie eurocentriche, né di stabilire pretese gerarchie tra le culture. Il rilancio di culturale europeo non potrebbe che stimolare quello di altri poli (cinese, islamico, indiano) che hanno alle spalle una storia altrettanto antica e gloriosa quanto quella europea, e che l’esempio europeo stimolerebbe a creare le condizioni politiche della propria rinascita e della propria inserzione a pieno titolo nel processo di maturazione della cultura mondiale.
Il Federalista
IL FEDERALISTA - Rivista di politica, XLIV, 2 (2002), 75-81.
http://www.thefederalist.eu/site/index.php/it/64-indici/443-2010-lii